Omelia per la festa di N. S. di Montallegro

Eccellenza Reverendissima, fratelli, la pagina del Vangelo (Lc 1, 32-56) che avete ascoltato ha narrato la prima visita di Maria Santissima: l’ha fatta appena era diventata la Madre di Dio. Importante è questo: che la Madre di Dio – ben al di sopra di tutte le più o meno equivoche imperatrici di questo mondo – appena diventata tale, non è andata a sedersi sul trono; è partita a piedi, ha fatto centocinquanta chilometri per arrivare ad Ain Karim, dove abitava sua cugina Elisabetta, che attendeva la nascita di Giovanni, ed è rimasta là per tre mesi, a servirla. La Regina del Mondo ha cominciato così. Ho l’impressione che non abbia avuto troppe imitatrici a quel rango. Ma ha cominciato – ho detto – perché la visita è continuata.
Sappiamo poco di questa visita nel primo millennio, ma nel secondo millennio ne sappiamo molto. Ha continuato a visitare – dopo la sua Assunzione – il mondo. Nei momenti più gravi è comparsa sulla terra; non per niente era la Madre degli uomini. Specialmente nel XVI secolo, prima e dopo la perversione di Lutero; poi nel secolo scorso e in questo secolo ha ripreso con singolare lena questo lungo pellegrinaggio. Nel 1500 si è fermata anche qui. È questo che colpisce.
Ora mi domando se io posso tacere del fatto accaduto qui. Non posso tacere. E pertanto devo ricordare quello che voi sapete. Attenti: da tutti i momenti di questo fatto abbiamo da imparare qualcosa. Ecco: appare a un giovane contadino che era andato a vendere i suoi prodotti a Genova, che aveva fatto cinquanta chilometri a piedi. Arrivato quassù per passare di là, era stanco e si è addormentato.
Bisogna osservare la scelta dei suoi interlocutori da parte della Madre di Dio. I suoi interlocutori si trovano sempre tra gente umile, preferibilmente bambini. Domandiamoci perché. Vedete, è una constatazione che bisogna fare tutti i giorni: la felicità – quella poca – e la moralità cominciano per terra, si trovano di più al piano di terra; man mano che si sale-— guardate – la felicità scompare. Di tutti i “grandi” che ho conosciuto — e ho avuto tante occasioni —, nessuno l’ho trovato felice. E quanto più era l’accaldarsi per creare distrazioni esterne, tanto più profondo era il dolore e la desolazione, e spesso la disperazione occulta. E la moralità? La stessa storia. Chi la vuol trovare, la vada a trovare laggiù, per terra. Man mano che ci si alza… Oggi ci si offende se si dice che ci sono peccati. E tanto più si offendono, tanto più sono peccatori. E il mondo dovrebbe aver vergogna di se stesso. Perché si tace! Tutti occultano, anche quelli che dovrebbero parlare. Che cosa ne è del VI° comandamento? È meglio tacere.
Ma andiamo avanti. Il giovane si addormenta, poi si sveglia. E quando si sveglia – questo Giovanni Ghighizola – vede una Gran Signora vestita di azzurro; capisce che è la Madonna, la quale presenta un quadretto – quello che vedete lassù – e domanda che a quel quadretto si costruisca un abitacolo e la gente possa venire qui a peregrinare, a incontrarsi con lei.
Il quadretto. Vedete: molte volte si sente gente che trova da dire sulle immagini sacre. Naturalmente i più non sanno che c’è stato nel secolo VIII un Concilio Niceno II, che ha condannato tutti gli iconoclasti che allora, per la prima volta nella storia, se la sono presa con i Santi, con le immagini e le reliquie. Hanno finito e non se ne parla più. Ma perché Dio vuole – per mezzo della Madonna – tante volte, in tante apparizioni, mette in mano un’immagine? Perché? Dobbiamo ricordare che viviamo in un momento di prova. Noi non siamo nella vera vita; la vera vita viene dopo; ora è prova. E abbiamo bisogno di tutto, perché l’eternità è celata completamente. È una realtà impenetrabile e insostenibile, perché se noi potessimo aprire gli occhi e vedere qualcosa dell’eternità, moriremmo subito. Difatti quando anime grandi, santi dotati di poteri mistici, possono, per permissione divina, aprire un occhio – e non sappiamo bene come vadano le cose, perché non si possono tradurre -, devono essere sostenuti da un miracolo di Dio, altrimenti morirebbero. San Tommaso d’Aquino ebbe l’ultima visione – per quanto ne sappiamo noi – il 6 dicembre 1273, perché era andato al Crocifisso per chiedere se andava bene quello che aveva scritto nello scartafaccio che portava in mano, ed era il commento all’Eucaristia, ed è il commento che non è ancora stato superato oggi, e non so se lo sarà. Si sentì approvare, poi entrò in estasi, sollevato da terra. C’erano a vederlo, nascosti da tutte le parti, quaranta frati. La cosa risulta dagli atti della Canonizzazione. Quando ritornò disse: “Quello che ho scritto è vero, ma è paglia rispetto a quello che ho visto”. Ecco perché abbiamo bisogno di questi mezzi: per poter incontrare le cose che altrimenti noi non possiamo vedere; molto più di quanto non possiamo contemplare il sole che splende senza nubi a mezzogiorno, per un’ora. Alla fine di quell’ora saremmo ciechi, perché i nostri occhi non sono ancora fatti per quello. Ed è un’immagine molto lontana dalla realtà.
Ma ora viene il bello. L’Arciprete qui, che era un frate – che poi diventò Cardinale poco dopo -, prese il quadretto e se lo portò a Rapallo. Il quadretto scomparve da Rapallo e ricomparve qui. E questo accadde per tre volte. È chiaro. Il messaggio divino vuol calcare che il quadretto deve restare fuori della città, e con un cammino molto faticoso. Il messaggio quale è? Cari, per incontrare Dio utilmente, bisogna uscire dalla città del mondo. La città del mondo è piena di distrazioni. E fortuna che Dio ha creato anche le distrazioni, perché, se non fosse per quelle, gli uomini non so come se ne salverebbe uno. Le distrazioni, per fortuna, riducono le nostre colpe. Sono, sì, un difetto, ma sono anche una misericordia di Dio. Bisogna uscire dalla città del mondo. Sapete che cosa vuol dire? Togliersi dalla testa le distrazioni del mondo, le sue suggestioni che sono quasi tutte sbagliate. Uscire dal suo peccato, dalla sua contaminazione, per cercare nell’aria pura la purezza della vita e dell’intelligenza. Questo è il messaggio. Potete venire quassù e non ascoltare il messaggio contenuto nel fatto che questa basilica ricorda a noi? Non credo che questo sia possibile e neppure dignitoso. Chi viene quassù deve sapere dove va, deve sapere qual’è la parola che è rimasta sospesa nei secoli per servire a quelli che devono venire. È giusto e decoroso che nelle cose di Dio si porti quel tanto di attenzione e di profondità meditativa che esse meritano e senza del quale noi rischiamo di stare poveretti a mordere la polvere delle città senza mai elevarci al di sopra della nostra miseria.

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UNA TESTIMONIANZA

(…) All’età di sei anni ho perso mia mamma per un male incurabile e, poiché mio papà, essendo stato colpito nello stesso periodo da una grave malattia del midollo osseo era costretto su una sedia a rotelle e non essendoci parenti prossimi che potessero aiutarci, io e la mia sorellina di quattro anni siamo state accolte nell’orfanotrofio di Sant’Antonio a Voltri. Tale istituto poteva ospitare come interne bambine e ragazze fino ai diciotto anni orfane, mentre offriva la possibilità di frequentare le scuole alle esterne. Il collegio, istituito dalla Duchessa di Galliera, era gestito dalle suore Figlie della Carità di San Vincenzo de’ Paoli e, proprio per volere della Duchessa, la Madre Superiora che dirigeva l’istituto doveva essere genovese.
Negli anni della Seconda Guerra Mondiale, l‘allora vescovo Giuseppe Siri si recò in visita pastorale alla parrocchia dei S.S. Nicolò ed Erasmo di Voltri ed al Santuario di Nostra Signora delle Grazie ed in questa occasione volle fermarsi anche all’orfanotrofio. Per accoglierlo, le suore ci schierarono nell’atrio vestite con la divisa delle occasioni importanti (gonna a pieghe blu e casacca blu con colletto bianco ricamato). Una delle ragazze doveva dare il benvenuto al Vescovo, leggendo una pergamena preparata dalla Madre Superiora. Purtroppo la prescelta si trovava in quel momento indisposta e io sono stata incaricata di sostituirla. Non aspettandomi tale compito, ero molto in ansia e questo mio stato d’animo era ancora più evidente in quanto io ero di costituzione molto gracile e visibilmente pallida. Al suo arrivo, il Vescovo è stato fatto accomodare nella poltrona per lui preparata ed io mi sono fatta avanti ed ho iniziato a leggere. Ad un certo punto, il Vescovo mi ha fatto cenno con la mano di interrompere la lettura ed io temevo di aver commesso qualche errore e anche le suore mi guardavano preoccupate. Il Vescovo mi ha poi invitata ad avvicinarmi e mi ha tranquillizzata dicendo che non mi aveva lasciato portare a termine la lettura perché si era commosso. Poiché era voce comune che il Vescovo avesse un carattere un po’ burbero, questo fatto apparve abbastanza straordinario e l’episodio fu raccontato per lungo tempo non solo nell’ambito dell’orfanotrofio ma in tutta la parrocchia.
Non avrei mai pensato che questa vicenda avesse potuto avere un seguito anni dopo. Infatti, dopo aver lasciato l’orfanotrofio al diciottesimo anno d’età, alla fine del 1954 mi sono iscritta al corso per infermiera professionale presso gli Ospedali Galliera di Genova, il cui presidente era ed è tuttora l’Arcivescovo di Genova. In quel momento il presidente era Giuseppe Siri, già nominato Cardinale. Era prassi che all’inizio del corso le nuove iscritte venissero presentate al Cardinale ed egli chiedeva ad ognuna notizie sulla famiglia, sulla provenienza e sulle motivazioni della scelta effettuata. Quando si è rivolto a me, gli ho parlato di Mele, mio paese di origine, e del fatto che avevo frequentato le scuole all’orfanotrofio Sant’Antonio. Il Cardinale Siri, mentre mi diceva di essere stato in visita al collegio, si è interrotto di colpo e guardandomi intensamente mi ha sorriso dicendomi: ‘Allora non mi sono sbagliato! Sei tu quella che mi ha fatto piangere.’. Questa volta è toccato a me rimanere stupita e commossa.

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